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Il mio Iaco | Il giorno dei sogni infranti

di Francesco Saccoccia.

C’è un momento nel corso dell’anno nel quale tutti gli affanni della mia esistenza lasciano spazio ad una profonda malinconica tristezza. È il momento del ricordo di un tempo nel quale tutto poteva essere e non è stato, della perdita della fanciullesca illusione che ogni cosa sarebbe andata per il verso giusto e dell’addio agli eroi della gioventù, immortali fino a quando non ci si imbatte nella crudeltà della vita.
Avevo diciott’anni nell’inverno del 1978 e vivevo a Taranto da pochi mesi.
Grande appassionato di calcio pur vivendo lontano tifavo per i rossoblù da sempre perché era la squadra della città di mio padre ed ogni domenica attendevo con ansia che Ezio Luzzi comunicasse i risultati della serie B a “Tutto il calcio minuto per minuto”.

Alla fine dell’estate del 1977 la mia famiglia si trasferì a Taranto e subito i miei zii, ancora oggi a più di novant’anni grandi tifosi del Taranto, convinsero mio padre a sottoscrivere per me un abbonamento in tribuna laterale anche perché il presidente Giovanni Fico aveva costruito uno squadrone intorno ai due gioielli Franco Selvaggi ed Erasmo Iacovone.

Come dimenticare la sensazione di festa all’ingresso allo stadio, con gli addetti all’entrata che facevano passare senza biglietto tutti i ragazzini, purché accompagnati da un adulto, i quali poi, come mio fratello e mio cugino, avrebbero visto la partita seduti sulle ginocchia dei loro accompagnatori, o i sediolini di metallo e le assi di legno delle gradinate che al momento opportuno diventavano tamburi il cui rombo dava la carica agli undici leoni in campo.
Ricordo ancora l’emozione della prima partita della stagione con la Pistoiese ed il gol di Panizza che dette inizio ai sogni di promozione di una tifoseria consapevole della forza della squadra e di quella del suo centravanti.

Già, Iacovone!

Sportivamente era l’antitesi del centravanti, mite nel carattere e minuto nel fisico ma nei novanta minuti della partita diveniva il più grande dei guerrieri come un nuovo Ettore, l’eroe di chi è destinato dal fato alla sconfitta, consapevole della sua “umanità” ma votato al dovere fino alla fine.
Probabilmente, prima che con i gol si fece spazio nel cuore dei tifosi proprio perché chiunque avrebbe potuto vedere in lui il fratello più grande, il figlio ideale, il ragazzo al quale affidare la propria figlia, il compagno tanto desiderato.

A quell’epoca mi sentivo un privilegiato rispetto a tanti altri perché la domenica mattina nella chiesa dell’Addolorata, che all’epoca era situata negli attuali ambienti del teatro, alla messa delle otto quando il Taranto giocava in casa lo incontravo. Ci trovavamo sempre allo stesso posto: lui, io ed una ragazza che mi piaceva e con la quale non ho mai avuto il coraggio di farmi avanti.
Naturalmente loro non facevano caso a me, ma tutti e tre seguivamo la funzione in piedi, in un angolo vicino alla porta. A causa della mia timidezza non ho mai rivolto nemmeno a lui la parola ma, quando ci scambiavamo il “segno della pace”, mi sentivo grande. Avevo stretto la mano a Iacovone! e tra me e me pensavo, “ci vediamo oggi pomeriggio”. Subito dopo la fine della funzione andava via silenzioso, discreto e riservato, probabilmente per raggiungere i compagni.

La stessa cosa accadde anche domenica cinque febbraio; la settimana prima avevamo pareggiato a Pistoia e lui aveva fatto gol, la partita del pomeriggio con la Cremonese avrebbe dovuto dare finalmente nuovo impulso alle nostre speranze di promozione dietro l’irraggiungibile capolista Ascoli, realmente creata per vincere il campionato. La squadra lombarda era una formazione quadrata che annoverava tra i suoi punti di forza Alberto Ginulfi grande portiere di Roma, Fiorentina e Verona all’ultima stagione da calciatore. Ricordo come adesso il lungo duello tra portiere e centravanti, le miracolose parate e l’incredulità del centravanti e dei tifosi, il volo sotto la traversa a deviare un colpo di testa di Erasmo, la sua arma migliore e l’incitamento del pubblico (Iaco-Iaco-Iacovone) a fine partita quando, rivolgendosi al pubblico con le braccia larghe, sembrò quasi chiedere scusa per non aver segnato regalandoci l’ultima perla.
Poi il ritorno a casa con i commenti tra di noi ed il rammarico per un punto perso. La domenica sera per uno studente spesso si concludeva con i compiti per il giorno successivo e con la visione delle lunghe trasmissioni sportive.

La mattina successiva mentre facevo colazione prima di andare a scuola ascoltando come al solito il giornale radio di rai due venni a conoscenza, come la maggior parte dei tarantini, di quello  che era successo durante la notte. Ricordo che mi si chiuse lo stomaco e iniziai a piangere a dirotto mentre mia madre, che ha sempre seguito le mie passioni sportive, tentava inutilmente di consolarmi. Un uomo non deve vergognarsi nel piangere, figuriamoci un ragazzo che fino a quel momento aveva visto della vita solo l’aspetto più sereno e positivo. Ecco, quella è stato il mio primo grande dolore, ce ne sono stati tanti altri ma il primo rimane scolpito per sempre in modo indelebile nell’animo. Sotto choc ho trascorso la giornata della quale non ricordo nulla, come se si fosse concretizzata esclusivamente nella notizia della mattina e nel mio pianto disperato. Il giorno dopo, martedì grasso, la mia scuola era chiusa ma se non lo fosse stata avrei fatto filone comunque, dovevo andare a salutare per l’ultima volta il mio amico. Ricordo che andai alla lunga processione partendo da san Roberto Bellarmino con un amico sotto una pioggerellina fine che rendeva ancora più triste tutto quello che ci circondava. Tra i tanti ragazzi che seguivano mestamente il corteo ne conobbi uno che è ancora, dopo quarant’anni, uno dei miei più cari amici che mi è sempre vicino anche adesso nei momenti veramente avversi della vita. Lo stadio era pieno di gente come lo era stato due giorni prima ma questa volta non si sentivano i clamori della partita, solo un silenzio sbigottito ed un dolore inimmaginabile. Il sacerdote che celebrò il funerale, suo compaesano, era il mio professore di scienze con il quale ogni lunedì commentavamo le prodezze di Erasmo e dal quale il giorno prima ero andato per cercare conforto al mio dolore e per tentare di capire il perché di tanta crudeltà.

Sappiamo tutti come è finito quel campionato e di come la domenica successiva il Taranto andò a vincere per tre a uno a Rimini con un gol di Serato, il centravanti di riserva, e di come tutti pensammo che fosse stato Erasmo a fargli buttare la palla in porta.

Ecco, a quarant’anni di distanza, io penso che il 6 febbraio 1978 sia stato il giorno dal quale il fato abbia voluto girare le spalle a questa città disgraziata e che non ha più avuto un momento di pace.
Qualsiasi persona con più di quarantacinque anni conosce a memoria la formazione di quell’anno e se transita sulla Taranto – San Giorgio non può fare a meno di voltare lo sguardo malinconico verso la lapide posta al fatidico incrocio e ricordare di quando la città dei due mari aveva il suo campione.
Un eroe la cui figura continua a svettare, nella foto più conosciuta in città, invincibile come un novello superuomo più in alto del difensore avversario.