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Il mio Iaco | Grazie Iaco

di Vincenzo Tavella.

Grande Iaco. Era così che ti nominavano i tifosi, era così che ti immaginavo vedendoti dagli spalti dello stadio Salinella saltare al di sopra di tutti ed insaccare la palla nella rete senza che il portiere riuscisse a fermarla. Il colpo di testa è imprevedibile. Vederlo effettuare da un giocatore che nemmeno si riesce a scorgere tra le fila dei difensori a causa della sua altezza è per gli spettatori un gesto atletico straordinario per il portiere invece è come uno scatto fotografico con il flash sparato negli occhi: ti lascia disorientato giusto il tempo di capire che la palla ha superato la linea di porta infilandosi al di sotto della traversa ma non perchè la vede ma perchè sente il boato dello stadio che esplode “IACO, IACO, IACO”.

Grande sì, grande.

Il lunedì mattina a scuola, a casa, tra gli amici, non si parlava d’altro.

La mattina del funerale non entrai a scuola. Andai vedere il funerale, una marea di gente fuori dalla chiesa di San Roberto, quasi impediva di entrare.

Seguii il flusso di persone mi avvicinai e la bara del grande Iaco era piccola, tutto si ridimensionava  in quel momento.

Immaginare un mito ridotto ad un piccolo spazio era frantumare le grida la gioia l’illusione di vivere un sogno.

Al di fuori della chiesa l’applauso. La gente non voleva lasciarlo andare via.

Forse era il mio primo funerale a cui partecipavo in maniera consapevole.

Anni prima era morto mio nonno e da bambino qual’ero lo vissi come un incontro tra cugini, quasi una festa.

Adesso mi rimangono i ricorsi sbiaditi di un nonno marinaio con i tatuaggi delle donne cinesi sul braccio e tanta voglia di poterci parlare.

Mio padre mi portava al campo sin da piccolo, non era una cosa cui ci tenessi particolarmente, forse ero troppo piccolo e non riuscivo ad appassionarmi. Poi iniziai ad andare con mio cugino e con mio zio mentre mio papà seguiva il servizio di ambulanze ai bordi del campo. Paina, Nardelli, Benetti i cognomi dei giocatori che più mi rimanevano in mente. Diciamo che mi avviavo ad una carriera di discreto tifoso che avrebbe seguito da vicino le partite della sua squadra del cuore.

Iacovone irruppe come un ciclone; segnava e vinceva la squadra con lui. Trascinava i compagni ed il pubblico, dava una speranza di vittoria, di riscatto.

Ho smesso di andare al campo da quel giorno. Non capivo come i tifosi potessero esultare ancora. Come gridare, incitare, maledire senza che ci fosse Iaco nel campo. Senza che Iaco saltasse spuntando al centro dell’area, volando, sconfiggendo la legge di gravità per colpire il pallone e scaraventarlo in porta.

Disorientato forse per l’assurdità di quella morte. La dyane 6 macchina sbarazzina divertente che si trasformava in un catorcio di latta incapace di proteggere quel corpo che incarnava ai miei occhi un mito, una leggenda vivente.

Amareggiato per il dolore collettivo ho lasciato la folla vedendo scorrere via la bara e ho ancora oggi negli occhi i fazzoletti rossoblu, quel rosso e quel blu che non sono riuscito a rivedere nei colori delle maglie del Taranto, come se la squadra del Taranto fosse soltanto quella con Iaco in campo.

Sono tornato al campo altre volte. Per far compagnia ad un’amico, per passare una giornata al sole, per divertirmi ad assistere ad uno spettacolo popolare. Con lo sguardo inconsapevolmente cercavo qualcuno. Mancava una saetta in campo che sgominasse gli avversari, che sfuggisse alla morsa del difensore, che gonfiasse la rete a modo suo.

Rivedendomi indietro ora capisco che il dolore per la sua scomparsa lo porto dentro ancora oggi e la festa che vivevo andando allo stadio Salinella a piedi da casa di mio zio in via Emilia,per vedere giocare il Taranto, non c’è più stata perchè per me il calcio era Iaco. Se c’è un momento nella vita di ognnuno di noi in cui si ha la consapevolezza di dover iniziare a diventare grandi e di separarsi dal mondo ovattato di bambino per me è stato l’addio a Iaco. Tutti i tifosi che insieme esultavano inneggiando alla vittoria erano lì insieme a piangere un giovane padre, sconfitti dall’ineluttabilità di una tragica morte.