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Taranto sul Post | Il festival dello “squascio”

di Pierluigi Alfieri alias tarantosulposter

Non c’è pace per il tifoso del Taranto. Mai. E’ una guerra interiore che divora i visceri, sconquassa sentimento e ragione, intossica l’anima, uccide senza far morire.

I sintomi di questa sofferenza cronica sono spesso latenti e invisibili oppure vengono ben mascherati da un precario senso di sicurezza, dall’illusione che il peggio sia ormai passato e da fugaci moti di entusiasmo. Le riacutizzazioni di questo male insorgono improvvisamente, in genere di domenica pomeriggio intorno alle 17, dopo una sconfitta cocente o dopo una prestazione indegna, con quadri clinici molto eterogenei e infinite varianti fenotipiche: c’è chi, fintantoché si trova sugli spalti o all’esterno dello stadio, fischia, urla e contesta. C’è chi, a casa, con spirito zen, spegne ogni aggeggio elettronico, allontanando ogni fonte di sconforto e dedicandosi agli affetti e agli affari domestici. C’è invece chi ha bisogno di scaricare l’ira funesta sulla tastiera di un computer o sul bancone di un bar. C’è infine qualcun altro che bestemmia ad alta voce o prega in silenzio. Nessuno se la ride, a parte le iene, e nessuno piange, ad eccezione dei coccodrilli.

Questo autunnale inizio di settimana ci regala, in termini di umore calcistico, uno dei punti più bassi in assoluto nella nostra recente storia pallonara. Le scialbe apparizioni consecutive contro Turris e Brindisi, con la classifica che langue e le aspettative che vengono disattese, ci consegnano più di una valida ragione per essere afflitti e contriti, per vedere tutto nero e vacuo, per sentirci vittime di un destino ingiusto e crudele, per mandare all’aria tutto e tutti.

Una parola del gergo dialettale, meglio di altre, è in grado di descrivere questa condizione di inquieta implosione e di esplosiva autodistruzione che, di tanto in tanto, il tifoso tarantino si trova a vivere sulla sua pelle: lo squascio. Se il giocattolo non funziona più o si è rotto, vuol dire che si è squasciato. Se l’automobile si ferma per una noia meccanica, si è soliti affermare che si è squasciata.

Da ieri a Taranto è in scena il ricorrente festival dello squascio. Tutti sono invitati, nessuno escluso. Ognuno a proprio modo contribuisce a squasciare qualcosa. L’importante è farlo orchestralmente. Non sono ammessi solisti nello squascio. E’ un lavoro di squadra che richiede ordine, organizzazione e visione di gioco.

Le cose squasciate, in quanto tali, sono passibili di vituperio e abbandono. Poco importa se possono essere aggiustate e restituite a piena integrità; a caldo deve prevalere sempre l’istinto di “squasciare tutt’ cose”, possibilmente con irrazionale rabbia e risoluto furore.

Sulla scorta di un antico proverbio norvegese (C’ no se squascia no’ s’aggiust), sconosciuto ai più, esiste una seconda fase che prevede la riparazione e la ricostruzione dell’oggetto squasciato. Pare che anche per aggiustarlo siano richiesti impegno corale, partecipazione inclusiva e gioco di squadra e che il risultato sia spesso meglio del prodotto originale e intonso.

In fondo, per noi tifosi non cambia nulla. Per noi che riusciamo a colorare di rossoblu un intero settore ospiti in serie D, per noi che facciamo rinascere il settore giovanile con idee e risorse nuove, squasciare e aggiustare sono atti creativi equivalenti. Rimbocchiamoci le maniche perché, finito lo squascio, è già tempo di aggiustare.

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