Le domeniche senza Taranto hanno un sapore strano. E non basta una straordinaria rimonta della Fiorentina contro la Juve a cancellare quell’apatia di un pomeriggio senza scopo. In fondo della Serie A non ci importa nulla. Anche se, quando gioca il Taranto, un occhio sui risultati della massima serie lo buttiamo sempre ma soltanto per vedere se riusciamo a chiudere la bolletta o se, come al solito, la manchiamo per un soffio.
Come quando si andava allo stadio ai tempi della Serie B e uno con la radiolina c’era sempre. Ben premuta sull’orecchio per sentire bene e non disturbare chi invece voleva seguire la partita allo stadio. Tutti, però, almeno una volta chiedevamo a quello con la radiolina: “che fa l’Inter?” oppure “Palanca un’altra volta su punizione ha segnato?” o ancora “Bologna-Lanerossi Vicenza veramente 5 a 2 stanno facendo?”. E quelle informazioni si propagavano per tutto lo stadio come una ‘ola’, correvano tra le panche di legno senza sosta, caricandosi di stupore, anche se il cuore di ognuno batteva veramente soltanto per quello che succedeva in campo.
Solo chi come me, per ragione anagrafiche, ha vissuto quelle domeniche può ricordare e comprendere il sapore unico di quella giornata dedicata al rituale del calcio, alla radiolina rettangolare con l’antenna che spuntava da un angolo in alto, a Novantesimo Minuto alla tv che accendevamo appena rientrati prima ancora di toglierci il giubbotto, alle paste o alle zeppole, se era stagione, avanzate da pranzo e divorate per annientare la tensione, alla telecronaca del secondo tempo di una partita del campionato di Serie B trasmessa dalla Rete Due che non era mai quella del Taranto.
Il calcio era davvero aggregazione. Potevi vedere una partita di calcio solo se andavi allo stadio. E gli stadi si riempivano. Andare “al campo” significava incontrare la gente, parlare, confrontarsi, magari anche litigare se uno non la pensava come te su questo o quel calciatore. C’erano gli amici dello stadio. Quelli che incontravi nella tua vita soltanto allo Iacovone, di cui spesso non conoscevi nemmeno il nome ma con i quali ti intrattenevi in lunghe dissertazioni sul calcio. Persone che fuori dallo stadio non vedevi mai, come se vivessero in un’altra città. Ma sapevi che tra due domeniche li avresti ritrovati là, puntuali, sullo stesso quadrato di panca, sempre con il solito giornale e il cuscino rossoblù sotto il sedere, un pacchetto di sigarette e il caffè Borghetti appena comprato, e i frammenti del biglietto sopravvissuti all’ingresso custoditi tra le dita come un prezioso cimelio.
Era tutto più bello non soltanto perché il Taranto era fisso in Serie B o eravamo più giovani. Ma soprattutto perché provavamo un senso di continua scoperta a ogni azione, a ogni gol, a ogni punizione dal limite. Tutto era nuovo e tutto accadeva nel nostro stadio per la prima volta, non c’era niente che avessimo visto già in tv. Avevamo il nostro bomber, il nostro portierone e il nostro gladiatore in difesa. Pazienza se non erano Paolo Rossi, Zoff o Cabrini. Erano i nostri eroi. Oggi è tutto diverso: i calciatori di C sono copie sbiadite dei campioni della A, stessi capelli, stessi tatuaggi e meno talento. Per andare allo stadio devi esibire un documento e per portare uno striscione devi chiedere una preventiva autorizzazione. Addirittura non puoi più gridare “barese di m….”, perché ti chiudono lo stadio per discriminazione territoriale. Il mio calcio era differente, senza alcun dubbio.
27 Ottobre 2013 - 12:49
Condivido al 100%, quei tavoloni che ballavano sotto i piedi o i panni tra la Nord e la Gradinata per togliere la visuale ai palazzi restano impressi.